Oppenheimer, la recensione del film di Christopher Nolan

Oppenheimer

«In un certo senso basilare che nessuna volgarità, umorismo o esagerazione possono dissolvere, i fisici hanno conosciuto il peccato; e questa è una conoscenza che non potranno perdere». Nel post-Hiroshima e Nagasaki, J. Robert Oppenheimer parla esplicitamente di peccato. Lo fa perché è pienamente consapevole di ciò che ha fatto e del suo ruolo nell’economia complessiva della Storia umana. L’impressionante successo scientifico rappresentato dalla costruzione della bomba atomica, nella sua purezza creativa di sublimazione delle possibilità demiurgiche dell’uomo, non può cancellare la concezione dell’arma come veicolo di potere, come strumento che opera – e che, anzi, viene adoperato – attraverso le leggi della rovina, della distruzione di massa, della tirannia.

Nella folgorante sequenza del Trinity Test di Oppenheimer, Christopher Nolan dimostra di aver compreso l’essenza e la natura di questo tragico dilemma. Tra la bellezza estetica e il piacere estatico dell’esplosione atomica che, a suo modo, si impone come una perfetta forma di creazione, vi è infatti un istante preciso in cui Oppenheimer prende coscienza di ciò che ha realmente fatto. «Sono diventato Morte, distruttore di mondi». Le parole della Bhagavadgītā anticipano il boato atomico, ossia l’incursione del Reale che irrompe all’interno dell’immagine scardinando ogni cosa. L’effettiva realizzazione del danno che è stato fatto, però, dovrà attendere. La prima reazione è quella del giubilo, della festa, della gloria.

In Oppenheimer, Nolan agisce per contrasti. La burrascosa lotta interiore del fisico statunitense, le difficoltà personali e relazionali, i tumulti dell’animo: sono tutti elementi che non possono essere esaminati come a sé stanti senza il necessario confronto con le criticità, le contraddizioni, le ipocrisie che riguardano direttamente Oppenheimer e tutto il contesto che lo circonda. Così, nelle tre ore di durata del suo film, Christopher Nolan struttura un discorso audiovisivo estremamente complesso e stratificato che, come da suo marchio di fabbrica, si muove tra temporalità differenti. Il risultato è uno stream of consciousness ben articolato e senza soluzione di continuità che prende per mano lo spettatore e lo accompagna dai laboratori di Cambridge alle università americane, dalla cittadina-base di Los Alamos alle udienze degli anni ’50.

L’affresco tracciato è quello di un variegato ecosistema di personaggi storici che entrano ed escono continuamente dallo schermo, muovendosi da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra, rivelando a poco a poco come a tenerli uniti sia l’incessante – ed ineliminabile – traino della volontà di potenza. A monte troviamo Cillian Murphy, perfetto nell’incarnare Oppenheimer nella corporeità e nei suoi tormenti, bucando a più riprese lo schermo con il suo sguardo penetrante. Centrale per Oppenheimer è il rapporto con le due figure femminili più importanti della sua vita, Jean Tatlock (Florence Pugh) e Kitty Oppenheimer (Emily Blunt), ma anche la nutrita mole di colleghi e ufficiali con i quali deve necessariamente confrontarsi, come il padre della bomba termonucleare Edward Teller (Benny Safdie) o il direttore del Progetto Manhattan Leslie Groves (Matt Damon).

A “rubare” la scena a Murphy, però, è soprattutto l’interpretazione di Robert Downey Jr. nei panni di Lewis Strauss – vero e proprio villain della Storia americana del Novecento – con l’attore statunitense che si cimenta nella miglior prova della sua carriera. Un plauso va anche alla direzione della fotografia di Hoyte van Hoytema e alla colonna sonora di Ludwig Göransson, tra le migliori di tutta la filmografia nolaniana, in quello che è di fatto un enorme successo tecnico e artistico. Messe da parte alcune rigidità espositive del passato, Nolan concentra in Oppenheimer tutti i pregi del suo cinema in un biopic d’autore che abbraccia le logiche del blockbuster per protendersi verso un preciso orizzonte storico e politico (era già successo nel fenomenale Dunkirk), dove lo sguardo rivolto al passato si impone come lucido commentario sul presente. In tal senso, Oppenheimer è una visione inquieta e orrorifica, un’acuta ricerca sull’origine del Male e sul mistero di quel peccato primigenio che definisce il ciclo di violenza dell’azione umana. Ciclo che, tutt’oggi, imperversa ancora incontrastato.

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Daniele Sacchi