“Outer Space” di Peter Tscherkassky – Recensione

Outer Space

Outer Space (1999) è un’operazione filmica incredibilmente violenta, tesa verso la frammentazione totale della messa in scena, profondamente dissacrante nei riguardi dello stesso medium cinematografico. Il regista austriaco Peter Tscherkassky, con il suo cortometraggio d’avanguardia (visionabile gratuitamente a questo link), attua un vero e proprio rimontaggio dell’horror Entity (Sidney J. Furie, 1981) muovendosi tra le dinamiche del found footage e lavorando direttamente sul materiale in pellicola, riassemblando e alterando le immagini del film per creare un prodotto, a modo suo, interamente originale. L’outer space inteso nel titolo è in tal senso lo spazio che si trova al di là dei confini dell’immagine cinematografica, spazio che grazie all’intervento diretto di Tscherkassky finisce per interagire con essa, distorcendone e penetrandone la cornice.

Come riscontrabile anche nel simile lavoro di riformulazione de Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone in Instructions for a Light and Sound Machine (2005), il regista austriaco non vuole cimentarsi in semplici esercizi di stile e di mera scomposizione e ricomposizione, ma creare effettivamente qualcosa di nuovo a partire da elementi preesistenti. In primo luogo, Outer Space si sofferma solo su un personaggio di Entity, la protagonista Carla Moran (interpretata da Barbara Hershey), e su alcune delle sequenze più brutali del film che la vedono subire diverse violenze da parte di un’entità sovrannaturale invisibile. La scelta di Tscherkassky nasconde un preciso intento autoriale che si muove di pari passo con la sua ricerca formale. Lo stesso abuso percepito da Carla si presenta infatti come un’esibizione voyeuristica della violenza che si spinge in due direzioni: verso lo spettatore, con un’azione destrutturante nei confronti del suo sguardo, e verso l’immagine cinematografica.

Outer Space

Outer Space tematizza sin dai suoi momenti iniziali la necessità di sovvertire ciò che è riconosciuto – similmente a quanto accade (sebbene in termini differenti) nei minuti conclusivi di Irma Vep (1996) di Olivier Assayas – in modo da riempire lo schermo con stimoli percettivi imprevisti e nuovi. Peter Tscherkassky ci mostra Carla entrare nella sua abitazione ma è evidente che “qualcosa non va”. Ogni forma di diegesi viene immediatamente accantonata: la riproposizione del già visto non ha senso se non nell’ottica di una sua risemantizzazione. L’immagine cinematografica si presenta così nella sua cornice alterata, spezzata da una serie di interferenze esterne che ne modificano l’apparenza. Presto, a corroborare questo discorso, Carla non sarà più una singola figura ma si moltiplicherà in numerosi doppi ed enti speculari, in un processo di totale perdita del referente concreto.

Insieme alla dissoluzione del film in quanto racconto, Tscherkassky mostra la dissoluzione del film in quanto oggetto. La pellicola alterata, graffiata e rovinata si rende progressivamente manifesta nel corso del cortometraggio, attuando un transfert del sentimento di panico provato dalla protagonista verso lo spettatore. La presenza spettatoriale diventa parte integrante dell’opera filmica, chiamata direttamente in causa dal costante decadimento della sua forma. Ed è proprio nel momento in cui il peggio sembra passato che il regista austriaco getta ulteriormente lo spettatore all’interno di un incubo. Carla ritorna chiaramente visibile e, nel reagire agli abusi dell’entità, si trova in realtà bloccata in una coazione a ripetere di atti violenti tesi verso la macchina da presa. È forse lo spettatore il destinatario? L’entità che abusa di Carla con l’azione irrefrenabile del suo sguardo? Peter Tscherkassky si muove con Outer Space oltre ogni grossolana forma di remake ed esamina i limiti entro i quali il medium cinematografico può spingersi in un piccolo ma brillante capolavoro avanguardistico che, insieme al successivo Dream Work del 2001 (dedicato a Man Ray, grande fonte di ispirazione per il regista austriaco), costituisce una visione essenziale per ogni appassionato del lato più sperimentale della settima arte.

Daniele Sacchi