“Perdizione” di Béla Tarr – Recensione

Perdizione

Prima di realizzare alcuni dei suoi film migliori, come l’opera di culto Satantango (1994) o lo splendido Le armonie di Werckmeister (2000), Béla Tarr aveva già dimostrato nei suoi primi lavori, sebbene in modo meno estensivo ma non per questo meno intenso rispetto alle sue produzioni future, una precisa tendenza nel coniugare l’aspetto formale del cinema con le proprie personali necessità autoriali. In tal senso, il punto più alto raggiunto dal regista ungherese tra gli anni ’70 e gli anni ‘80 è probabilmente Perdizione (1988), un film capace di far muovere di pari passo un acuto minimalismo cinematografico con le riflessioni che derivano direttamente dalla sua applicazione.

Lo stile di Béla Tarr, che richiama parzialmente alcune delle istanze proprie del cinema di Andrej Tarkovskij, si presenta con chiarezza in Perdizione sin dai suoi momenti iniziali. Il film, girato interamente in bianco e nero, si apre con un piano sequenza che mostra il protagonista, Karrer (Miklós B. Székely), osservare il movimento delle funivie fuori dalla sua abitazione. Inizialmente, la figura dell’uomo non viene mostrata: il focus è sulla meccanicità del movimento delle funivie, sulla mancanza di una precisa emozione capace di definire il loro scopo. Solo in un secondo momento, Tarr ci presenta Karrer, di spalle e affacciato alla finestra, istituendo una vera e propria correlazione tra il personaggio e lo spettatore. Il mondo che vede Karrer è il mondo che appartiene anche allo spettatore, nella misura dell’esperienza soggettiva dell’uomo stesso.

A differenza di Tarkovskij tuttavia, il frequente ricorso al piano sequenza e alla lentezza dei movimenti di macchina ha un obiettivo diverso: invece di presentare l’immagine cinematografica come medium peculiarmente espressivo, Tarr in Perdizione vuole prima di tutto sottolineare il rapporto tra l’immagine stessa e la realtà che rappresenta soffermandosi sull’esperienza del reale piuttosto che sulla sua trascendenza.

Perdizione

A tal proposito, la particolare relazione ricercata dal regista ungherese tra la forma e il contenuto è individuabile in misura maggiore, come anticipato, nelle modalità in cui il contenuto stesso viene presentato piuttosto che nell’effettivo sviluppo degli eventi. L’intreccio del film, infatti, è da considerarsi come una cornice raffigurante la condizione esistenziale di Karrer, e, per estensione, come una riflessione sull’essere in sé. L’uomo, che trascorre la maggior parte della propria vita in uno stato di ubriachezza, è innamorato della cantante (Vali Kerekes) di uno dei bar che frequenta quotidianamente. Dopo aver convinto il marito di quest’ultima ad assentarsi per un breve periodo offrendogli un lavoro da contrabbandiere, riesce ad intrattenere una relazione con la donna, pur conscio del suo statuto effimero.

La narrazione di Perdizione è così contenuta nelle sue premesse. Béla Tarr non sviluppa sino in fondo i dettagli dei suoi personaggi, dell’ambiente che li circonda, dei rapporti che li riguardano. Il minimalismo con il quale la relazione tra Karrer e la cantante viene tracciata è sintomatico della condizione degradante dell’uomo stesso: l’assenza di felicità e la vacuità di una sua effettiva ricerca, impedita da ciò che è temporaneo (come l’esistenza umana stessa) e dalla precarietà del contatto con l’alterità, diventano per Karrer i tratti definitori delle sue esperienze di vita.

Inoltre, la scelta da parte del regista ungherese di mostrare la piccola cittadina al centro degli eventi del film sotto una pioggia perenne è un ottimo esempio di approfondimento della psiche di Karrer attraverso il potere evocativo dell’immagine, ponendosi al di là del semplice ricorso al dialogo o alla mera azione. Béla Tarr costruisce così con Perdizione un’esperienza cinematografica dal carattere fortemente esistenzialista, a tratti cinico e quasi nichilista, cercando di rappresentare esplicitamente un preciso stato della mente umana e restituendo allo spettatore una visione della realtà in un controverso rapporto tra oggettività e soggettività.

Daniele Sacchi