“Rabbits” di David Lynch – Recensione

Rabbits

Rabbits (2002) consiste in una serie di 8 cortometraggi per il web scritti e diretti da David Lynch, attualmente disponibili sul suo canale YouTube in una versione rieditata in 4 parti, già pubblicata in passato in DVD. L’operazione condotta dal regista di Strade perdute (1997) e Mulholland Drive (2001) – per citare due dei suoi film più interessanti – è tesa, in linea con la sua poetica, tra il surreale e il metacinematografico, con Lynch che cerca ancora una volta di andare oltre ogni limite rappresentativo, muovendosi completamente fuori dagli schemi e non piegandosi ad alcuna forma di categorizzazione.

Al centro degli eventi di Rabbits troviamo tre conigli antropomorfi: Suzie (Naomi Watts), Jane (Laura Elena Harring) e Jack (Scott Coffey). L’idea di fondo è quella della sitcom, con la frequente incursione di risate e di applausi da parte di un pubblico preregistrato che tuttavia emerge sempre nei momenti meno opportuni, creando una sorta di disturbo percettivo tra la risposta emotiva che si vorrebbe suggerire allo spettatore e gli eventi effettivi mostrati sullo schermo. Le discussioni tra i tre conigli sono, infatti, prive di una qualsiasi logica, con David Lynch che fa uso del non sequitur per amplificare ulteriormente la sensazione di spaesamento nello spettatore. Le frasi pronunciate dai protagonisti di Rabbits sono completamente scollegate l’una dall’altra e rifuggono da ogni principio di consequenzialità, strizzando fortemente l’occhio alle dinamiche proprie del teatro dell’assurdo.

In superficie, Rabbits sembra volerci presentare la vita quotidiana dei tre conigli umanoidi, ma – come si può facilmente intuire – la serie di corti di Lynch non vuole in realtà proporre alcun tipo di narrazione lineare chiaramente identificabile, preferendo invece imbastire una riflessione più astratta e concettuale sull’immagine e sul linguaggio cinematografico e televisivo. In tal senso, oltre alle sensazioni di cortocircuito causate dall’incoerenza dei dialoghi e dalle “interferenze” sonore del pubblico, è interessante notare come alcuni frammenti dei corti facciano a loro volta parte di quello che potrebbe essere definito come il magnum opus di David Lynch, Inland Empire (2006), intersecandosi perfettamente con l’orizzonte semiotico del film e finendo per acquisire nuove sfumature di senso all’interno di una nuova cornice, ribadendo dunque ulteriormente la loro natura propriamente autoriflessiva.

Rabbits

Una particolarità specifica della serie è la modalità visiva attraverso la quale viene presentata allo sguardo spettatoriale. Ogni episodio consiste in un piano sequenza con un’inquadratura fissa – con l’eccezione di un singolo momento in cui Lynch ci mostra il dettaglio di un telefono che squilla – che ci permette di visionare la casa in cui vivono i tre conigli da una posizione neutra, che richiama a sua volta il palcoscenico di un teatro. Il set allestito dal regista nei pressi della sua abitazione a Los Angeles sembra quasi restituire l’impressione di una casa delle bambole, di un vero e proprio costrutto artificiale nel quale i suoi personaggi non possono che ritrovarsi intrappolati, irrimediabilmente costretti ad una coazione a ripetere dell’assurdo e dell’inspiegabile.

Ed è in questo senso che emergono come degni di nota anche i brevi segmenti dedicati a ciascuno dei personaggi – uno dei quali, con Rebekah Del Rio nei panni di Suzie, purtroppo assente nella versione rieditata – tesi ad approfondire il loro ruolo (se di approfondimento si può parlare) nel mistero che dovrebbe essere al centro della vicenda che li vede come protagonisti. I loro monologhi sono accompagnati dalla presenza di una luce su schermo, probabilmente un fiammifero, con il rumore della sua accensione che viene ripreso anche nei segmenti principali dell’opera nei momenti in cui appare su schermo la manifestazione di un volto deforme, accompagnata da suoni gutturali e inintelligibili.

In Rabbits, David Lynch prende dunque le mosse da elementi facilmente riconoscibili e in un certo senso familiari, dagli stilemi della sitcom sino ad arrivare a figure comuni come quelle dei conigli, per creare un prodotto alienante e conturbante che fonde il reale e l’immaginario in modi imprevedibili, con l’obiettivo di suscitare una precisa risposta emotiva da parte dello spettatore. Spettatore che, come in quasi ogni opera di Lynch, viene chiamato ad interpretare quanto appare su schermo come se non fosse nient’altro che un sognatore di fronte alla sua personale dimensione onirica.

Daniele Sacchi