“Stalker” di Andrej Tarkovskij – Recensione

Stalker

Ispirato dal romanzo di fantascienza Picnic sul ciglio della strada (1971) di Arkadij e Boris Strugackij, Stalker (1979) è, in continuità con le opere precedenti realizzate da Andrej Tarkovskij, un suggestivo viaggio teso verso la ricerca del senso della vita: una storia profonda, che come accadeva in Solaris (1972), si posiziona all’interno di un genere specifico finendo tuttavia per trascenderne i confini, nel tentativo di restituire allo spettatore qualcosa che vada al di là della sua semplice aderenza a strutture narrative consolidate.

L’elemento centrale attorno al quale si sviluppano le vicende di Stalker, nonché il vero nucleo dal quale prende le mosse la riflessione sull’uomo svolta dal regista sovietico, è la Zona. «La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla. La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero». Così, Tarkovskij descrive in Scolpire il tempo lo scopo del suo film, che di fatto si presenta come una vera e propria indagine sul significato della felicità umana e sulle possibilità del suo raggiungimento.

La Zona, nello specifico, è un luogo misterioso all’interno del quale, grazie alla guida di una figura denominata Stalker (Aleksandr Kajdanovskij) – l’unica in grado di riconoscerne al suo interno i percorsi – si dice sia possibile trovare la tanto agognata felicità. Per farlo, è necessario raggiungere la Stanza, una parte interna della Zona che garantirebbe ai suoi visitatori la realizzazione dei loro desideri più intimi. Tarkovskij propone al centro della narrazione del suo film due uomini, entrambi alla ricerca di questa Stanza, molto distanti tra loro per quanto riguarda la visione della vita e dei suoi misteri: lo Scrittore (Anatolij Solonicyn) e il Professore (Nikolaj Grin’ko).

Stalker

A differenza di Solaris, nel quale figuravano espliciti sottotesti morali e di commento sullo stato e sulle possibilità della conoscenza umana, in Stalker il discorso sembra vertere su un piano più astratto e rilegato invece alla sfera individuale. Tarkovskij sembra a tal proposito recuperare un tipo di approccio già adottato in particolare in Andrej Rublëv (1966), nel quale la spiritualità umana e la sfera della contemplazione si trovavano a giocare un ruolo fondamentale nel tracciare i temi del film.

Lo Scrittore e il Professore veicolano attraverso i loro discorsi due posizioni sulla realtà, sulla verità, sullo scopo dell’uomo diametralmente opposte. Il primo vede nella scrittura, nella produzione artistica e creativa il fine ultimo, mentre il secondo è un uomo totalmente devoto alla scienza. Tuttavia, Stalker non vuole mettere in mostra un reale scontro tra le due parti, invitando lo spettatore a schierarsi, bensì mira a riconciliarle, mostrando come la difficile riunificazione degli opposti sia in realtà possibile attraverso quegli aspetti che ci legano e che ci determinano in quanto esseri umani.

A inserirsi come figura terza in questo futile scontro è lo Stalker, che sembra a sua volta rappresentare un’ulteriore predisposizione alla realtà, quella propria dell’uomo di fede. L’uomo, la cui vita è completamente dedita a mostrare la via a coloro i quali richiedono i suoi servizi, non ha mai voluto entrare nella Stanza lui stesso, pur conoscendone la posizione e le capacità. La credenza non necessita della spiegazione, della messa in pratica, del raggiungimento effettivo della felicità: lo Stalker non vuole approfittare della Stanza, ma allo stesso tempo ne è attratto visceralmente. In tre modi differenti, ciascuno dei personaggi di Stalker rappresenta uno specifico tipo di sofferenza umana verso se stessi e verso la percezione del proprio ruolo nel mondo, e Tarkovskij con il suo film sembra volerci mostrare come l’unica risposta a tale sofferenza sia l’apertura verso l’altro e verso la differenza.

Stalker

Pur mantenendo le tematiche esistenzialiste de Lo specchio (1975), sul piano stilistico Tarkovskij mette da parte il ricorso al ricordo e all’onirico per ritornare a mostrare attraverso le immagini del suo film una precisa continuità temporale e spaziale. Il fluire del tempo nella Zona è incerto e da un momento all’altro una strada potrebbe portare in un posto piuttosto che in un altro. Tuttavia, Tarkovskij ci mostra questa vaghezza rendendola omogenea alla sobrietà del suo peculiare stile visivo. Dal montaggio quasi impercettibile all’utilizzo frequente del piano sequenza, Stalker è paradossalmente un’esperienza estremamente uniforme se rapportata ai contrasti propri del suo sviluppo temporale e spaziale.

Ad amplificare la ricerca della continuità nel discontinuo, vi è il ricorso da parte del regista sovietico ad una tonalità visiva color seppia per le sezioni del film al di fuori della Zona, differenziandole esplicitamente da quelle ambientate al suo interno, che invece sembrano più reali del reale stesso. Inoltre, il lavoro svolto sulla dimensione sonora si muove anch’esso in tal senso: ad un certo punto, ad esempio, la Stanza sembra essere a portata di mano dei protagonisti, ma i cambiamenti nel vento suggeriscono allo Stalker che forse non è il caso di proseguire per la via più diretta. I suoni del vento, della pioggia, dell’ambiente circostante, così come della terra che trema o del treno sui binari, diventano a loro volta parte del mondo descritto da Tarkovskij senza mai operare bruscamente su di esso ma agendo sempre in stretta relazione con la Zona e con le sue caratteristiche.

In ultima analisi, la lezione di Andrej Tarkovskij in Stalker è in fondo molto semplice: solo attraverso la rimozione di quel sentimento specifico che chiude ogni porta verso l’altro e che vede un’unica visione del mondo possibile – la propria – si potrà allora sperare nel percorrere la via per la felicità.  La ricerca della verità è intima e individuale, e il percorso attraverso il quale ci si muove è più importante della sua destinazione.

Daniele Sacchi