White Noise di Noah Baumbach, la recensione (Venezia 79)

White Noise

A tre anni da Storia di un matrimonio, Noah Baumbach ritorna alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con White Noise, adattamento dell’omonimo romanzo di Don DeLillo. Si tratta della prima apertura a Venezia per una produzione di Netflix, con il colosso dello streaming che avrebbe addirittura superato largamente i 100 milioni di budget per permettere a Baumbach di realizzare al meglio la sua particolare visione degli eventi narrati nel romanzo di DeLillo, oltre ad essere la prima volta che il regista statunitense si trova alle prese con una storia che, almeno alla base, non è di suo pugno.

Parliamo di “visione” perché, nell’adattare un testo che è stato spesso definito come impossibile da tradurre per lo schermo, Noah Baumbach cerca di rendere il materiale letterario di partenza pienamente suo con un’opera che, da un punto di vista autoriale, è perfettamente in linea con la sua proposta cinematografica. Come spesso accade nei film di Baumbach, da Il calamaro e la balena a The Meyerowitz Stories sino ad arrivare proprio a Storia di un matrimonio, il punto di partenza fondamentale di White Noise è la famiglia e in special modo i suoi rapporti fondanti, influenzati dalle peculiarità – e dalle contraddizioni – del tessuto sociale contemporaneo.

Nello specifico, al centro di White Noise troviamo le difficoltà da parte di una famiglia americana nell’interfacciarsi con i dilemmi e le incertezze quotidiane di un mondo alla deriva. Adam Driver è il professore Jack Gladney, esperto nel campo degli studi hitleriani, mentre Greta Gerwig interpreta la sua compagna Babette, una insegnante di ginnastica posturale. Un incidente inaspettato – il rilascio di tossine mortali nell’aria – non potrà che cambiare all’improvviso la vita della coppia e dei loro figli.

Insieme a Don’t Look Up di Adam McKay e, a modo suo, anche a Nope di Jordan Peele, White Noise costituisce un ideale terzo capitolo di un nuovo filone catastrofico post-pandemico che analizza gli isterismi e le criticità di una società che non è più in grado di decodificare criticamente la realtà. Schiacciati da uno spirito capitalistico che punta sull’accumulazione del Tutto e sull’idolatria del Nulla, le figure che osserviamo in White Noise sono dei veri e propri morti viventi romeriani, corpi vivi ma erranti, ossessionati dalla Morte e, soprattutto, dal terrore della sua inevitabilità.

Non è un caso che uno dei luoghi cruciali del film sia il supermercato (di nuovo lo spettro di Romero), non solo in quanto ente aggregatore – «sapevo che ti avrei trovato qui» sono le parole pronunciate in una sequenza dal collega di Jack, Murray (Don Cheadle), poco prima di confidargli una notizia importante – ma anche come imperante simbolo capitalistico, dove il rumore bianco della vacuità consumistica si diffonde proficuo, ergendosi a mantra totalitario. Oltre a ciò, a proposito di idolatrie e insensati fanatismi, è emblematica la sequenza in cui Murray, per legittimare i suoi studi su Elvis Presley, chiede a Jack di organizzare una conferenza per mettere in confronto il “successo” di popolarità di Adolf Hitler durante l’epoca nazista proprio con quello del Re del rock and roll, con Jack stesso che sembra trasformarsi in una nuova autorità della vuotezza, capace di raccogliere attraverso fascino e buona retorica il consenso di un popolo de-pensante.

Nonostante la spiccata ironia e la notevole densità tematica, White Noise è purtroppo un film riuscito solo parzialmente, piegato da evidenti difficoltà nel riportare il suo discorso centrale ad una singola unità di senso compiuta. Il film di Baumbach vive perlopiù di suggestioni e di qualche buona intuizione, irrigidendosi soprattutto nell’atto conclusivo quando i problemi familiari di Jack e le sue ossessioni prendono il sopravvento su tutto il resto. In un certo senso, White Noise svilisce tutto quanto costruito sino a quel momento peccando di eccessive banalità, specialmente nella deludente risoluzione dei suoi misteri centrali, risultando nella sua parte finale come eccessivamente pretenzioso sia nella forma sia nei contenuti.

Le recensioni di Venezia 79

Daniele Sacchi