Broken Rage, la recensione del film di Takeshi Kitano

Broken Rage

Takeshi Kitano, ancora una volta, è tornato. Lo ha fatto con Broken Rage, presentato Fuori Concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e ora su Prime Video, riaffacciandosi allo yakuza eiga dopo la digressione period di Kubi. Siamo lontani, tuttavia, dalle venature più classiche del genere (quelle della trilogia di Outrage) e più vicini a una sua rilettura sommaria. Non siamo nemmeno nei territori riflessivi dei suoi capolavori del passato (pensiamo a Sonatine o a Hana-bi), bensì con Broken Rage Kitano si lascia andare al divertissement più puro e sincero. L’interprete principale del film è lo stesso Kitano, firmandosi come da tradizione con il soprannome Beat Takeshi, mentre ad accompagnarlo in questa singolare avventura filmica troviamo alcuni collaboratori storici, come Tadanobu Asano (lo abbiamo visto di recente in Shōgun) e Nao Ōmori.

Broken Rage si divide formalmente in due parti. Nella prima fase del film, Kitano presenta un racconto in pieno stile yakuza, semplice e essenziale. Nezumi è un sicario di grande esperienza, letale e impeccabile nel suo lavoro. Tuttavia, dopo aver portato a termine uno dei suoi incarichi, viene arrestato dalla polizia, che gli offre un’alternativa alla prigione: Nezumi dovrà infiltrarsi nella yakuza come guardia del corpo di un boss e contribuire alla sua cattura, così da poter ottenere in cambio la libertà. Ma la vicenda non si conclude qui, anzi: nella seconda parte di Broken Rage, Kitano ripropone lo stesso racconto dall’inizio alla fine. A cambiare sono il tono e la grammatica filmica. Stavolta Nezumi è un killer disastroso, completamente inadeguato al ruolo. Cade di continuo, è inaffidabile, fallisce le sue missioni.

Il punto di partenza è lo stesso, ma dalla solennità di un classico yakuza eiga si passa a un registro surreale e demenziale, trasformando la storia in un’esilarante parodia di se stessa. Nella carriera di Takeshi Kitano, d’altronde, vi è sempre stata una passione per lo humor e per il grottesco. Senza scomodare quell’esperimento cinematografico poco riuscito che fu Getting Any?, basti pensare ai suoi trascorsi nel duo manzai Two Beats o all’ideazione del programma televisivo Takeshi’s Castle per farsi un’idea precisa dell’umorismo di Kitano. L’alterazione del tono del racconto, in ogni caso, è una costante della sua filmografia, e Broken Rage riesce con convinzione a compiere la sfida di coniugare le due anime creative del regista in poco più di sessanta minuti. Così, ciò che nella prima parte appare come un colpo di puro genio (Nezumi che anticipa l’estrazione della pistola dalla giacca di un uomo), nella seconda parte si tramuta in sbeffeggio e derisione (la pistola è in realtà un semplice cellulare). E persino un gesto normale, come il sedersi su una sedia, finisce per diventare una gag delirante.

In tutto questo, lo spettatore viene direttamente chiamato in causa in alcuni brevi segmenti dove su schermo appaiono alcuni messaggi di una chat che commentano quanto messo in scena, lamentandosi in particolar modo degli sviluppi assurdi del film. Per Kitano, di fatto, Broken Rage è un gioco, e noi stessi siamo a nostra volta parte di questa operazione farsesca, un circo illusorio che all’esplosione di violenza preferisce affiancare una certa giovialità dello spirito e un preciso sapore ludico. Come se tutto fosse un grande scherzo.

Daniele Sacchi