Iman, neo-promosso giudice istruttore presso il Tribunale Rivoluzionario di Teheran, ha il compito di stabilire un verdetto rapido su presunti nemici dello Stato. Le accuse riportano, prevalentemente, formule vaghe come “guerra contro Dio”, “corruzione sulla Terra”, o “compromissione della sicurezza del Paese”. Pena comune è la pena di morte. Un ingranaggio fondamentale di un sistema divenuto sinonimo di violazione normalizzata dei diritti umani, Iman è il perno attorno a cui Mohammad Rasoulof costruisce il suo manifesto di denuncia, Il seme del fico sacro.
Seppur chiarificando come Iman svolga una mansione spregevole, l’approccio di Rasoulof è parzialmente assimilabile a quello di Jonathan Glazer ne La zona d’interesse, quindi nella forma di uno spostamento di focus dalla personalità pubblica all’identità privata dei suoi soggetti. Eppure, nonostante questo parallelismo possa presupporre a una rinnovata riflessione sul male come di una forza “banale”, Il seme del fico sacro lo osserva come qualcosa di “infettivo”, atto a propagarsi dalla sfera pubblica alla sfera privata. Nella forma di uno scontro generazionale e di genere, Rasoulof lo destruttura in un’entità alternativamente da propugnare (nel personaggio di Iman, il capofamiglia), da normalizzare (la moglie Najmeh), o da rigettare (le due figlie della coppia, Rezvan e Sana).
Il ritratto, dapprima non giudicante, del giudice Iman, denuncia l’ipocrisia di coloro che permettono a un sistema amorale di prosperare, catalogando il proprio contributo come obbligato, prettamente lavorativo o comunque “scisso” dalla propria persona. Un’umanità privata, per il regista, non è e non può essere conciliabile con una disumanità pubblica. Sono quindi le nuove generazioni il reale soggetto di Rasoulof, nonché l’ovvio riferimento dietro alla scelta del titolo del film, vittime sovversive di un regime che si spera possa venire “strangolato” dai loro semi.
Nonostante il titolo rimandi a una narrazione maggiormente simbolica, regia e messaggio de Il seme del fico sacro sono diretti e privi di fronzoli. Per quanto si possa qualificare questa direzione come mancante di raffinatezza registica, composizione visiva, o generale finezza (in particolar modo nella “virata” parzialmente fuori tono del terzo atto, in cui il film assume i toni classici dello western), non la si può discernere da una genesi produttiva miracolosa. Girato clandestinamente, l’atto stesso di produzione del film è stato un atto di sovversione contro il governo teocratico ed è evidente come le scelte registiche (in primis la scelta di girare quasi esclusivamente in interni) siano in larga parte necessarie, più che discrezionali. Necessità che il regista è stato comunque in grado di sublimare con soluzioni ottimali, quali l’utilizzo di materiale d’archivio per le riprese in esterno ma, soprattutto, di brevi filmati di cellulare ritraenti le sommosse del 2022 in reazione alla morte di Mahsa Amini, localmente censurati dalla Repubblica Islamica.
In virtù di questa genesi, è quindi un po’ riduttivo proporre una valutazione finale limitata al film come pure prodotto cinematografico, seppur evidenziando l’ottimo lavoro di sceneggiatura (firmata dallo stesso Rasoulof) e dell’intero cast attoriale. Presentato in anteprima all’ultimo Festival di Cannes e in concorso agli Oscar come miglior film internazionale, Il seme del fico sacro è da elogiare su tutto come opera, formalmente e strutturalmente, di denuncia, quanto come ennesima espressione di cinema non solo come strumento estetico, ma come strumento sociale e politico.
Beatrice Gangi