“I Care a Lot”, quando l’essere umano diventa fondo di magazzino

I Care a Lot

Fu Martin Heidegger a coniare e ad utilizzare per la prima volta il termine “fondo a disposizione” (Bestand) per descrivere la condizione della società contemporanea. Secondo il filosofo tedesco, il pensiero scientifico e la produzione tecnica hanno portato l’uomo a vedere la natura come qualcosa a sua completa disposizione, da cui poter attingere indiscriminatamente e senza rispetto. Questo atteggiamento produce però un problema: se l’uomo vede tutto come un “fondo di magazzino disponibile” finirà per vedere anche se stesso come parte di esso. A tal proposito, I Care a Lot di J Blakeson (che abbiamo recensito qui) sembra voler rispondere alla domanda “cosa succede quando gli esseri umani vengono visti come un prodotto di cui poter disporre?”.

I Care a Lot racconta di Marla Grayson (Rosamund Pike), una cinica self-made woman, uno squalo che ha visto un’opportunità e vi si è gettata a capofitto. La donna è infatti riuscita a creare un’intricata struttura attraverso la quale, sfruttando l’incompetenza dello stato e la compiacenza di un medico corrotto, riesce a farsi assegnare la tutela di anziani considerati non più autosufficienti. Una volta avviata la trappola, ai malcapitati non resta che venire internati in case di riposo, mentre Marla e il suo staff impietosamente cannibalizzano ogni avere dei loro assistiti.

La situazione sembra però sfuggire al controllo della donna quando nella sua rete rimane intrappolata la facoltosa Jennifer Peterson (Dianne Wiest), misteriosamente collegata al boss mafioso Roman Lunyov (Peter Dinklage), uomo senza scrupoli che sembra intenzionato a salvarla a tutti i costi.

I Care a Lot

Marla e Roman sono le due facce di una stessa medaglia, entrambi il frutto di una società disumanizzata e disumanizzante, in cui le persone sono soltanto fotografie sostituibili in qualunque momento, siano essi anziani o giovani donne destinate alla prostituzione. La mafia russa, così come la compagnia di Marla, rappresentano il pericolo estremo della tecnica, un impianto (Gestell) che si autoalimenta e che ha il solo scopo di catalogare le persone, immagazzinarle e sfruttarle come dei beni di consumo.

Questa macchina infera arricchisce i forti a scapito dei più deboli, in un circolo che non fa altro che generare dei disperati, persone che hanno perso tutto e che sono disposte a qualsiasi cosa, non avendo più nulla da perdere. In questa luce si spiega il colpo di scena finale, che non arriva come una punizione divina, come apocatastasi per i malvagi: si tratta, di fatto, della naturale conseguenza del meccanismo messo in moto da Marla e dalle persone come lei, un meccanismo che genera prodotti di scarto incontrollabili come Feldstrom.

In un cast ricco di talento e capacità, Rosamund Pike brilla nell’interpretazione della spietata Marla Grayson, una donna manipolatrice e senza scrupoli, capace di tutto pur di raggiungere il suo obiettivo, e che ricorda la Amy Elliott-Dunne già interpretata dall’attrice in Gone Girl – L’amore bugiardo di David Fincher, ma che stavolta le garantisce l’ambito riconoscimento del Golden Globe. Quello rappresentato da J Blakeson è un mondo malvagio e privo di elementi positivi, una giungla in cui sembrerebbe sopravvivere solamente il più forte e che non fa altro che alimentare la propria lenta – ed inevitabile – autodistruzione.

Gianluca Tana