“Il fiume” di Tsai Ming-liang – Recensione

Il fiume

Il fiume (1997) è il terzo lungometraggio di Tsai Ming-liang, un film capace di esplorare a fondo la tematica dell’alienazione urbana e il senso di isolamento ormai percepito come parte integrante della natura dell’uomo contemporaneo. Le modalità attraverso le quali il regista taiwanese affronta la sua indagine sono, di fatto, quelle tipiche della sua intera produzione filmografica. L’essenza slow del cinema di Tsai Ming-liang, perfezionata negli anni e riproposta ne Il fiume con una nuova consapevolezza, è il principio cardine alla base del film, principio che funge da vero e proprio motore narrativo e stilistico.

Ogni sequenza dell’opera, infatti, è un tentativo da parte di Tsai Ming-liang di raccontare, attraverso la lontananza, il silenzio, l’assenza, una storia più ampia rispetto a quella effettivamente proposta. Il fiume riparte da quanto accennato nei precedenti I ribelli del dio neon (1992) e Vive l’amour (1994) per ribadire come alcuni dei tratti specifici della contemporaneità agiscano su di noi in quanto elementi separatori, capaci di intromettersi attivamente nella nostra vita, finendo per distanziarci l’un dall’altro.

Nello specifico, Il fiume racconta i tentativi di una famiglia di aiutare il figlio Hsiao-kang (Lee Kang-sheng) a liberarsi da un terribile dolore al collo apparentemente incurabile. Il problema sembra manifestarsi dopo che il giovane si è immerso nel fiume Tamsui per aiutare una crew cinematografica a realizzare una sequenza nell’acqua (diretta peraltro dalla celebre regista di Hong Kong Ann Hui), causandogli in seguito numerosi problemi nell’affrontare le più piccole faccende quotidiane e rendendolo così incapace di vivere in tranquillità.

Il fiume

Nel tracciare le personalità dei protagonisti del suo film, Tsai Ming-liang ci propone un vero e proprio manifesto dell’incomunicabilità. Il modo in cui il regista introduce i membri della famiglia di Hsiao-kang è progressivo ma minimale, tanto che durante la prima metà dell’opera i rapporti tra i personaggi sono presentati come incerti. Presto diventa chiaro come la frammentazione familiare sia totale e apparentemente irrisolvibile. La madre del ragazzo (Lu Yi-ching), oltre ad avere una relazione segreta con un uomo attivo nel settore pornografico, lavora come operatrice di ascensore, trascorrendo le sue giornate in mezzo ad altre persone ma senza avere mai la possibilità di stabilire un reale contatto umano: gli incontri sono brevi e si risolvono nello spazio che separa un piano dall’altro. Il padre (Miao Tien), invece, è un frequentatore di una sauna per omosessuali.

Tsai Ming-liang tuttavia non si limita a presentare allo spettatore un semplice background narrativo e di contorno per tracciare la parcellizzazione del rapporto familiare, ma lo approfondisce sensibilmente mostrandoci nel dettaglio le interazioni dei personaggi, o meglio ancora la loro specifica assenza. In una scena, il padre di Hsiao-kang incontra il figlio per strada e lo vede cadere dalla sua moto, ma a stento lo guarda in viso. Oppure, in altre sequenze, durante i pasti, i protagonisti del film non si scambiano nessuna parola, e anzi, il più delle volte la famiglia non mangia insieme. I personaggi de Il fiume sono unità singole, a sé stanti, che sembrano non condividere nulla tra di loro se non l’abitazione e il grado di parentela.

Il momento in cui l’assenza, la mancanza del contatto umano e l’impossibilità di comunicare si manifestano realmente, dandosi agli occhi dello spettatore come una paradossale quanto brutale affermazione della presenzialità esistenziale dell’assenza stessa, è un momento completamente dissacratorio. Nel climax perverso de Il fiume, raggiunto lentamente e in netta continuità con lo stile sobrio e minimalista del regista taiwanese, il senso dell’opera diventa evidente: creare una connessione tangibile con l’alterità non sembra essere più possibile, e Hsiao-kang non può che accettare il dolore, sia fisico sia spirituale, che il fiume gli ha pietosamente donato.

Daniele Sacchi