“Sacrificio” di Andrej Tarkovskij – Recensione

Sacrificio

Sacrificio (1986), l’ultimo film di Andrej Tarkovskij, riparte dalle suggestioni emerse in Nostalghia (1983) per articolare un commento conclusivo da parte dell’autore sovietico sui conflitti e sullo statuto della modernità. Attraverso i dilemmi del protagonista, Alexander (interpretato non a caso dal Domenico di Nostalghia, Erland Josephson), Tarkovskij approfondisce ancora una volta lo scontro dialettico tra materiale e spirituale nel tentativo di trovare una risposta all’irrisolvibile enigma della vita. Se da un lato però Sacrificio contiene una marcata influenza da parte della religione cristiana – una costante nell’intera filmografia tarkovskijana – nello sviluppo dei suoi temi, dall’altro si rende presto evidente come l’immaginario proposto sia profondamente arricchito alla sua base anche da una forte ispirazione pagana.

Il film, infatti, è il risultato di una commistione tra due idee molto differenti. Inizialmente pensato come un racconto di matrice medievale, dal titolo La strega, Sacrificio è stato successivamente ripensato in un contesto moderno all’interno di un orizzonte segnico che cerca di fondere insieme i drammi esistenziali di Alexander, un attore teatrale di successo che ha da tempo abbandonato la propria professione, alla minaccia di un imminente olocausto nucleare. Tarkovskij unisce così le indagini metafisiche portate avanti dalle filosofie occidentali con un misticismo appena accennato ma fondamentale nello sviluppo dell’opera. L’intento del regista, come approfondito dallo stesso in Scolpire il tempo, è «mettere a nudo le questioni vitali della nostra esistenza», richiamando lo spettatore «alle sorgenti ostruite e inaridite della nostra vita».

Sacrificio prende così le mosse da quello che potrebbe essere interpretato come un vero e proprio mito di fondazione, o, se vogliamo, di ri-fondazione. All’inizio del film, infatti, Alexander racconta al proprio figlio – costretto ad un temporaneo mutismo a causa di una recente operazione – la storia di un monaco, il quale ogni giorno soleva innaffiare un albero secco con la speranza che tornasse a germogliare. I due piantano così un albero rinsecchito nelle prossimità della loro abitazione, con la stessa fiducia del monaco nelle possibilità del miracolo, ma la giornata si conclude con un evento catastrofico: l’arrivo di alcuni aerei da caccia sembra presagire l’avvento di una guerra nucleare, presto confermata dal notiziario. Alexander si rinchiude così nella sua abitazione insieme alla sua famiglia e ad alcuni ospiti, rimuginando sulla sua fede e sul significato dell’esistenza.

Sacrificio

Grazie al consiglio dell’enigmatico Otto (Allan Edwall), Alexander troverà conforto nella conturbante domestica, Maria, la quale incarna con la propria persona gli elementi misticheggianti già compresi nelle primissime idee del film. Secondo Tarkovskij, «l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia applicando a sé le leggi della natura inanimata»: bisogna svincolare l’uomo dal materiale per instaurare una nuova, per quanto apparentemente paradossale, connessione con l’impossibile. L’uomo moderno non sembra essere in grado di separarsi dal suo feticcio verso il principio di causalità, contrassegnato dal rifiuto di tutto ciò che è alogico, nella sua appartenenza ad un reame estraneo ad una determinazione coerente, e illogico, nella sua natura contraddittoria.

Per Tarkovskij, dunque, l’uomo moderno e pragmatico vive in una vera e propria forma di «devastazione spirituale». Il compito di Alexander, come diventa presto evidente, risiede così nel recupero della spiritualità, un processo che sembra aver già avviato da tempo ma che con il collasso strutturale del pensiero moderno, rappresentato concretamente dal pericolo di un olocausto nucleare, richiede di essere perfezionato per poter ambire alla salvezza dello spirito. È in questo contesto che subentra la dimensione sacrificale, che sebbene sia un tema insito nella religione cristiana, per Tarkovskij passa però anche dal rifiuto verso la parola, in netto contrasto con la stessa tradizione che rappresenta, tradizione per la quale la guerra alle immagini ha caratterizzato secoli della sua storia. Nella ricerca della via per la salvezza, Alexander ricorre al mutismo, liberando metaforicamente il figlio dalla propria condizione e affermando a sua volta il pensiero del regista, per il quale le immagini hanno il potere di affrontare la tematica dell’esistenza umana tanto quanto la parola, in un’epoca nella quale quest’ultima ha perso «il proprio significato misterioso e magico, trasformandosi in vuota chiacchiera».

E, non da meno, il sacrificio richiede – come in Nostalghia e riecheggiando in parte anche le riflessioni veicolate ne Lo specchio (1975) – l’intervento di un fuoco purificatore che renda concretamente manifesto il passaggio dal tormento del reale alla nuova limpidezza dello spirito. In Sacrificio possiamo assistere visivamente, grazie al grande contributo del direttore della fotografia Sven Nykvist (storico collaboratore di Ingmar Bergman), alla suddivisione dei due piani: le sequenze successive agli interventi nucleari, infatti, sono state realizzate manipolando il colore dell’immagine, riprendendo un’idea di alterazione cromatica che Tarkovskij aveva già proposto, con modalità differenti, in Stalker (1979). Sacrificio chiude l’esperienza cinematografica tarkovskijana con la stessa forza espressiva che ha caratterizzato l’intera produzione dell’autore sovietico sin dai suoi primi lungometraggi – L’infanzia di Ivan (1962) e Andrej Rublëv (1966), senza dimenticare il capolavoro di Solaris (1972) – consegnando così alla storia del cinema una precisa visione poetica ed estetica, unitaria e compatta, immensamente riflessiva e stimolante per il pensiero, che tutt’oggi non è ancora stata superata.

Daniele Sacchi