Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson, la recensione

Una battaglia dopo l'altra

La rivoluzione «è l’onda della Storia con la esse maiuscola: o la cavalchi, o ti gratti». La descrive così Thomas Pynchon nel suo Vineland, come un moto sospeso su una scelta binaria, rimandando al singolo la scelta – e la responsabilità – di rompere irrimediabilmente la continuità della Storia. Cos’è la rivoluzione, in fondo, se non il manifestarsi di un’energia vitale che fermenta nelle pieghe della società, una forza allo stesso tempo autonoma e collettiva che, tra pressioni e tensioni irrisolte, può arrivare a esplodere come una bomba a orologeria? Lo sanno bene, d’altronde, anche il bombarolo “Ghetto” Pat Calhoun (Leonardo DiCaprio) e l’incontenibile Perfidia “Beverly Hills” (Teyana Taylor), i due attivisti del gruppo French 75 al centro della trama del nuovo film di Paul Thomas Anderson, Una battaglia dopo l’altra, libero adattamento proprio del Vineland di Pynchon.

Il moto rivoluzionario di Pat e Perfidia parte dalla liberazione degli immigrati nei centri di detenzione californiani sino ad arrivare al rovesciamento più classico, quello contro le banche e le grandi corporazioni. Perfidia, in particolare, cattura l’attenzione del colonnello suprematista Steven Lockjaw (Sean Penn), eccitato dall’essere stato umiliato dalla donna afroamericana. Una volta catturata in seguito a una rapina finita male, Perfidia riuscirà a scappare, ma dovrà separarsi dal compagno Pat e dalla figlia Charlene (Chase Infiniti). Questi ultimi assumeranno una nuova identità, quella di Bob e Willa Ferguson, ma sedici anni dopo il colonnello Lockjaw tornerà a dare la caccia a entrambi. Il motivo? Eliminare gli spettri del suo passato per entrare in una società segreta di matrice suprematista: i Pionieri del Natale.

Com’è facilmente intuibile da un breve esame dell’intreccio di Una battaglia dopo l’altra, l’attenzione di Paul Thomas Anderson prende le mosse dal pathos rivoluzionario per poi operare una transizione radicale che mira al suo superamento. Il riferimento al tessuto sociale del contemporaneo c’è, sia nel richiamo evidente alle deportazioni trumpiane sia in alcuni sviluppi successivi (incarnati anche nel meraviglioso personaggio di Sergio, interpretato da Benicio del Toro), ma alle macroletture e alle visioni d’insieme Anderson contrappone un sottotesto familiare che scardina le pulsioni della collettività e le rimanda a un nucleo più contenuto. È sempre l’America dei soprusi razziali, del white gaze (i Pionieri del Natale sembrano uscire da Get Out), delle armi libere, ma lo sguardo di Anderson si muove verso un’altra direzione. In questo, Una battaglia dopo l’altra è un esempio di cinema politico che guarda a una politica dell’uomo.

Come ne Il petroliere e in The Master, il desiderio nonché l’arroganza di ergersi a guida e autorità spinge per prevalere sopra ogni altra cosa. E se ne Il filo nascosto quelle pulsioni recondite trovavano libero sfogo nel compenetrarsi con un’anima affine, qui, forse grazie alla decisione di ambientare il film nel presente, vengono portate a una sorta di limite rappresentazionale. E, infine, allo sberleffo. In Una battaglia dopo l’altra, quella hybris fondativa che nello sguardo al passato veniva osservata, studiata, accettata come parte integrante dell’umanità, ora assurge (o, al contrario, si degrada, regredisce) a bizzarria e ridicolezza. Lo vediamo tanto nella perdita di contatto con il Reale da parte di Perfidia, quanto nella caduta degli ideali del Pat/Bob di DiCaprio, in particolare nella sua trasformazione in un fattone smemorato. Ma anche nell’idiozia estremista e intrinsecamente contraddittoria del colonnello. Con una peculiarità fondamentale, però, che in un modo o nell’altro riguarda tutti e tre i personaggi e che, infine, non può che pungere in profondità anche la giovane Willa: quell’ardore sovversivo, quell’energia vitale, quella rivoluzione appunto che, come dicevamo, prima ancora di essere movimento collettivo è puro impulso individuale. Una spinta che, per Willa soprattutto (ma anche per Perfidia, nella sua tracotanza) è inno alla libertà.

Al di là delle sue venature tematizzanti, in ogni caso, Una battaglia dopo l’altra è anche un’esperienza cinematografica di altissimo spessore che riconferma Paul Thomas Anderson – qualora ce ne fosse ancora bisogno – come uno dei più grandi registi cinematografici statunitensi. Con un ritmo elevatissimo, Anderson spazia tra una prima parte dall’alta intensità, focalizzata sulle azioni del gruppo French 75, a una seconda più stravagante, incentrata invece sul personaggio di DiCaprio a metà tra lo stoner movie e il buddy movie, per poi chiudere con un terzo movimento, tra fughe, sparatorie e inseguimenti, che sublima il tutto in una cornice spettacolarizzante. Da questo punto di vista, Una battaglia dopo l’altra è una festa dell’ibridazione tra generi, nonché un vero e proprio manifesto di una passione per la carica espressiva dell’immagine cinematografica, che non sacrifica mai l’unità, la coesione e la potenza del suo insieme.

Daniele Sacchi